Il capitolo XIX inizia in modo lento, Manzoni all’inizio introduce una breve digressione usando una similitudine per spiegare come prendono forma, nella mente dell’uomo, le idee; dice che, come non è possibile spiegare la nascita di un’erbaccia in un campo coltivato, così non si può dire come l’idea del conte zio, di rivolgersi al padre provinciale dei cappuccini, sia nata. Si sa bene che è stata indotta dal conte Attilio.
I due personaggi sono gli esponenti dei poteri dell’epoca, infatti il conte zio è l’esponente dello stato e della nobiltà, invece, il padre provinciale della chiesa. Tra i due poteri nel ‘600 si era affermata una pacifica convivenza dovuta anche a interessi comuni.
Il conte zio da buon politico organizza tutto in modo minuzioso, invita il padre provinciale a pranzo insieme a convitati di prestigio e durante il pranzo sottolinea i suoi rapporti con la corte di Madrid.
Egli è molto abile, fa in modo di mettere in evidenza i lati negativi di padre Cristoforo, senza screditare i frati cappuccini. Mette in risalto il fatto che il frate stia proteggendo un ricercato come Renzo e inoltre che stia mettendo in cattiva luce il loro casato.
Dal canto suo il padre provinciale cerca di difendere il frate ma il conte riesce a portare avanti delle motivazioni per il bene comune che lo inducono a far trasferire fra Cristoforo a Rimini.
Durante il loro discorso vi è un solo momento di sincerità, cioè quando i due parlano del tempo che passa e il volgere verso la fine, ciò ci fa apparire i due personaggi più autentici.
Poche ore dopo questa conversazione, un cappuccino di Milano giunge al convento di Pescarenico per consegnare l’ordine in base al quale padre Cristoforo si doveva recare a Rimini e che doveva troncare qualsiasi tipo di rapporto con le persone del paese.
Quando fra Cristoforo viene avvertito si rammarica soprattutto di dover abbandonare i suoi protetti, ma stesso lui pensa che la provvidenza divina aggiusterà tutte le cose.
Intanto don Rodrigo ha deciso di chiedere l’intervento dell’Innominato, un personaggio storico che Manzoni introduce con piccole deformazioni rispetto alla realtà, in particolare sposta di poco l’ubicazione del suo castello.
In questo capitolo, l’autore scriverà solo degli aspetti storici della vita dell’uomo.
La prima cosa che mette in evidenza è l’assenza di un nome che è proprio il punto di forza del personaggio, infatti anche gli storici erano reticenti nel fare il nome dell’uomo poichè apparteneva a una casata storica milanese.
Il fatto che un uomo così malvagio, non sia neanche identificato con un nome fa crescere l’aura di mistero e la sua negatività.
Egli fin da giovane è stato un uomo prepotente, violento, sregolato, un vero malvagio; è molto ricco e si è estraniato dalla vita sociale, gli amici che ha sono suoi sottoposti. E’ diventato colui che svolge atti malvagi per gli altri, cioè è il mezzo attraverso cui ottenere i propri scopi.
A causa dei tanti delitti commessi fu costretto a lasciare Milano, ma riesce a farci ritorno stabilendo il suo castello al confine con il territorio bergamasco.
L’autore lo descrive come un autentico simbolo della forza usata senza scrupoli; la sua cattiva fama lo precede infatti ogni azione malavitosa è attribuita a lui.
L’ultima parte del capitolo si sposta su don Rodrigo, che rispetto all’Innominato è un malvagio mediocre, che si dirige verso il castello.